Il pericolo cinghiali è estremamente concreto, ma si è ancora in tempo per affrontare la questione con grande determinazione, e per risolverla. Prima di piangerne le conseguenze e dare origine a un vero caso nazionale. Ma attenzione, non si tratta tanto dei rischi per l’incolumità di chi potrebbe avvistare all’improvviso un cinghiale, com’è già capitato, nel cortile del suo condominio di S. Licandro o viale Regina Elena. Pericoli che, comunque, non vanno sottovalutati. In gioco c’è soprattutto il rischio sanitario: la possibile diffusione nel mondo animale (e poi in quello umano, a partire da persone particolarmente esposte) del “Mycobacterium bovis”. È il rischio della tubercolosi bovina che è già stata rilevata a fine 2014 dal Servizio Veterinario dell’Asp, con sintomatologia esterna, in un cinghiale abbattuto a Messina. E che potrebbe essere diagnosticata in più casi, dopo le oltre 300 analisi di laboratorio già effettuate, e poi riaffidate al Nord, sulle linfoghiandole della testa e del polmone di altrettante carcasse di cinghiali abbattuti dai cacciatori nell’ultima stagione venatoria. Il primo responso, quello dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale di Barcellona, avrebbe rilevato parziali segnali di positività alla tubercolosi bovina, in circa il 10% delle carcasse esaminate. Questa grave malattia cronica, va detto, non manifesta più i sintomi esterni, sulla pelle dell’animale, quando lo stesso raggiunge una certa età. Da quel momento resta rilevabile solo dall’esame dei linfonodi. Il numero dei casi sospetti (una trentina) appare alto anche ipotizzando che vengano confermati solo in minima parte. Anzitutto perché – spiega il dirigente del distretto di Messina del Servizio veterinario dell’Asp, Santi La Macchia – il cinghiale rappresenta una fonte di infezione per gli animali al pascolo, e viene considerato come un animale “sentinella” dei mycobatteri della tubercolosi nel territorio in cui vive. La patologia – prosegue – può passare dalle carcasse rimaste a terra ad animali selvatici come le volpi, i topi, gli uccelli, ed a quelli domestici». E il rischio per l’uomo? «A parte l’ipotesi del morso, preoccupa la pratica di alcuni cacciatori di consumare salame di cinghiale, magari cedendo a amici o vendendo a macellerie gli esemplari abbattuti, senza i dovuti controlli». Proprio in questo limbo anarchico – tra condotte disinvolte, modesta educazione sanitaria, e scarsi controlli – affonda le sue radici il buco nero dell’emergenza cinghiali messinese. «Solo 5 delle 20 delle squadre nelle quali i cacciatori sono registrati (più altri iscritti singolarmente) – rivela il dottor La Macchia – durante la passata stagione venatoria 2014-2015 hanno portato le carcasse dei cinghiali abbattuti, il cui esame esterno è possibile in un’apposita struttura dell’Asp per un totale di circa 300 carcasse. Uno di questi esemplari, appunto, aveva i sintomi esterni della tubercolosi bovina. Per le altre carcasse ricevute, abbiamo avviato, grazie alla disponibilità dell’Istituto di Barcellona, gli esami dei linfonodi». E gli altri cacciatori? «Impossibile pensar che non abbiano sparato ai cinghiali. Se cinque squadre ne hanno abbattuti 300, venti squadre potrebbero averne uccisi circa 1200. In base a una convenzione firmata dall’Asp, tutti i cacciatori avrebbero potuto e dovuto in qualunque momento contattare i nostri uffici, ma è evidente che alcuni non lo hanno fatto nonostante le nostre sollecitazioni». Ma adesso come si affronta il grave pericolo? «Lo dirà di certo la Ripartizione faunistica regionale: io non vedo altre possibilità rispetto a un abbattimento programmato, facendo soffrire il meno possibile gli animali».