Messina

Martedì 30 Aprile 2024

Una ragazza
che cercava soltanto
la sua “forma”

di Anna Mallamo

C’è un altro dramma, oltre alla vera tragedia di Ilaria, morta a 16 anni su una spiaggia d’estate: quello di leggere infinite sciocchezze su di lei, sul suo look “premonitore”, sul valore in qualche modo simbolico della sua morte, persino sulla messe di citazioni, status e fotografie che lei, nativa digitale come tutti i suoi coetanei, riversava ogni giorno sul suo profilo Facebook (ne aveva più d’uno). No, cari signori scrutatori di foto-profilo e macinatori di opinioni, rassegnatevi, non troverete davvero niente di più di quello che in quelle immagini, citazioni e status c’era, ovvero la vita di una sedicenne del Terzo Millennio, che amava la musica, citava i suoi rapper preferiti, documentava ogni cambio di look. Sì, il suo look era d’effetto e voleva essere “estremo” – come accade per milioni di ragazzine in tutto il mondo –, ma certe descrizioni apparse su alcuni giornali sono molto più “estreme” e francamente deprecabili, col loro sociologismo da due soldi.

No, cari signori, nei piercing (che qualcuno ha descritto come “sfiguranti”) e nei capelli tinti a colori violenti non c’è la spiegazione della sua morte assurda, quindi non cercatela lì.

E non crediate che i versi bui citati sul suo profilo Facebook siano indicativi di qualcosa d’altro che non sia l’adolescenza: alzi la mano chi a 16 anni non si riconosceva in Leopardi o in Jim Morrison, e anche tutti e due, ai tempi in cui il diario era di carta e chiuso col lucchetto, e non pubblico e online come oggi.

No, la tragedia di Ilaria è infinitamente più banale e assieme più complessa.

Forse ha più senso riflettere sulle parole postate – lì su quel diario pubblico – dalla sorella, dagli amici, dalle persone care che la conoscevano: la parola “bambina” vince sulla parola “buio” cento a uno. Una bambina che cercava la sua dimensione, la sua “forma”, la sua identità, sperimentando il look, appassionandosi a parole versi e musiche. Niente di più. La verità è che sappiamo così poco, di questo mondo di transizione, di questo mondo davvero estremo dell’adolescenza, che ci viene forse comodo cercare etichette, comporre ritratti (quelli sì, sfiguranti) che ci rassicurino: se ti metti i piercing, ti rasi i capelli e ti vesti “estremo” sei a rischio e puoi finire male.

Invece il fattore di rischio è sempre lo stesso e uguale per tutti, che abbiano la cresta punk o la polo firmata: la fragilità di un’età particolare della vita, dentro un mondo (adulto) che ha fatto degli eccessi, delle dipendenze, dell’essere “estremi” un’accettabile norma.

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