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Don Minico... è ccà!
Anche se è andato via

 Don Minico...è ccà!!! Come il Municipio. Come il Campanile del Duomo. Come l’azzurro dello Stretto. Tra i tanti messinesi illustri, lui che illustre non si è mai sentito, difficile trovarne un altro che sia stato così conosciuto e amato da tutta la sua comunità, e abbia portato il nome della nostra città in giro per il mondo. La verità è che Domenico Mazza, morto ieri a 94 anni, è stato un vero messinese. Uno di quelli dalla scorza dura. Messinese di montagna, come ce ne sono pochi. Una vita di lavoro e sacrificio, le soddisfazioni genuine nate dalla terra, dalle proprie mani, gli affetti familiari, la “carretta” ferma alle “quattro strade” dei Colli diventata un’azienda, la “clinica” per star bene con dosi massicce di pane alla disgraziata e buon vino, “u megghiu postu du munnu”. Negli anni della Guerra, lui classe 1921, fece il garzone di forno nel villaggio di Gesso. Quando si sposò, e dovette mantenere la famiglia, cominciò il suo andirivieni tra monti e mare, con una grossa cesta sulle spalle, portava il pane da Sarrizzo a Messina. Ogni giorno, d’estate e d’inverno, lungo i sentieri battuti dalla Storia, come quello denominato dei Vespri, che ancora oggi sale dalla Badiazza e arriva proprio alle Quattro Strade. Tra i momenti più belli della sua vita, Domenico Mazza ha sempre ricordato il giorno in cui un suo amico, il signor Di Stefano di Gesso, gli regalò la “carrittedda”. Luì la si stemò a Colle Sarrizzo e cominciò a vendere bibite ghiacciate. Poi, la carretta divenne un chioschetto, dove don Minico, assieme alla moglie, donna Razia, e al figlio Paolo, offriva pasti caldi agli operai della Forestale. Fu lui, qualche anno fa, a svelare il “segreto” del pane “alla disgraziata”. Un cacciatore, che passava spesso da lì, aveva il vizio di rubare il cibo e allora Domenico Mazza decise di fargli uno scherzo: condì il panino con un peperoncino piccantissimo. L’uomo non diede sazio, lo mangiò tutto ma poi, paonazzo in volto, esclamò: «Minchia Minicu, mi futtisti, stu pani è disgraziatu comu ‘a ttia. Picchì non ciù vinni ai cristiani?». E così nacque l’idea della pagnotta trasformatasi nel simbolo dell’azienda di Don Minico, dei Colli, della gastronomia messinese (assieme agli arancini, ai dolci e alla focaccia). Se ne potrebbero raccontare aneddoti, fatti veri, vissuti durante quasi un secolo da questo semplice “guerriero” senza spada, da questo “medico” senza bisturi, da questo “chef” senza “master”, da quest’uomo ruvido, eppure dal sorriso contagioso, uomo di poche parole (unica lingua conosciuta il dialetto messinese) e poeta delle cose buone e saporite. Figli e nipoti hanno ampliato l’azienda, l’hanno resa moderna, innovata tecnologicamente, hanno percorso le vie ormai obbligate della vendita dei prodotti online, in tutto il mondo. Ma il cuore di tutto è sempre lì, al limitar dei boschi che rendono meravigliosi i nostri Peloritani, lì dove s’incrociano le “quattro strade”, lì dove s’inerpica la via che conduce al santuario di Dinnammare. Lì dove quel giovanotto dai calzoni corti saliva e scendeva con la cesta di pane sulle spalle. Lì dove era la “carrittedda”, e poi la “baracchedda”, e il chiosco di legno. Non se ne è mai andato da lì e lascia in chi lo ha conosciuto (intere generazioni di messinesi dal Dopoguerra in poi) il ricordo di un uomo semplice e genuino, come il suo pane e il suo vino “Ruffianello”. Un uomo che oggi, come lo definiscono Vincenzo Nibali, Nino Frassica, Maria Grazia Cucinotta, è un “mito” ed entra di diritto nella galleria dei messinesi “doc”. Don Minico...è ccà!!! Lo sarà per sempre.

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