Trent’anni di reclusione. È questa la pensante condanna inflitta ieri dalla Corte d’a s s ise a Salvatore Irrera “C a r r uba”, accusato di aver preso parte all’omicidio di Stefano Marchese, che fu giustiziato a soli 27 anni sul viale Annunziata il 18 febbraio del 2005. Prima con quattro colpi di pistola al corpo, sparati alle spalle mentre cercava di mettersi in salvo, e poi con altri su una tempia e al centro della fronte. L’accusa, il pubblico ministero Liliana Todaro, all’udienza del 9 gennaio scorso, aveva sollecitato la condanna all’ergastolo. Gran parte degli addebiti a carico di Irrera ruotano attorno alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ricostruzioni che il legale dell’uomo, l’avvocato Alessandro Billé, ha definito senza mezzi termini nel corso della sua arringa come «inattendibili». Ciò anche sulla base della pronuncia della Cassazione, che a suo tempo ha annullato con rinvio l’o r d i n a nza di custodia cautelare di cui era destinatario Salvatore Irrera, il quale secondo la ricostruzione del pentito Gaetano Barbera guidava la moto adoperata per l’e s e c uzione. I giudici hanno anche destinato in sentenza una “provvisionale” ( r i s a r c i m e nto immediato) di 15.000 euro a favore dei familiari della vittima, costituiti parte civile nel processo, rinviando a un futuro procedimento civile il risarcimento globale. Sul piatto dell’accusa ci sono le attività investigative di riscontro della Squadra Mobile, ma soprattutto le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, a cominciare dal boss Barbera, passando poi per i verbali di Salvatore Centorrino, Santo Balsamà, Tommaso Marchese (il padre di Stefano, che ha raccontato quello che sapeva sull’e s e c uzione dei proprio figlio), Nunzio Bruschetta e Massimo Burrascano. L’inchiesta sull’esecuzione venne gestita nella prima fase dai sostituti della Dda Vito Di Giorgio, Camillo Falvo e Maria Pellegrino.
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