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Il clan di Camaro
e la rete del “pizzo”
Decise tre condanne

 Tre condanne ieri, due molto dure e una lieve, per uno dei tronconi dell’operazione “Richiesta”, sulle estorsioni a tappeto nel villaggio di Camaro. Il gup Monica Marino ha inflitto in abbreviato 6 anni di reclusione a Vittorio Di Pietro (in “continuazione” con una precedente sentenza per estorsione), 8 anni di reclusione e 3.000 euro di multa a Enrico Oliveri, e infine un anno e 4 mesi, più 200 euro di multa, a Salvatore Morabito. L’accusa, ieri c’era il sostituto della Dda Maria Pellegrino, aveva richiesto pene più severe: 10 anni di reclusione per Di Pietro, 13 anni per Oliveri, 2 anni e 8 mesi più una multa di 800 euro per Morabito. I tre sono stati assistiti dagli avvocati Pietro Luccisano, Giuseppe Donato e Maria Fogliani. Lo scorso dicembre, scattò il blitz della polizia, sfociato nell’arresto di 12 persone, coinvolte nell’operazione battezzata “Richiesta”, nome collegato alle pretese di denaro in cambio della classica protezione e non solo. Un vasto giro di estorsioni fu ricostruito dalla Squadra mobile e dai sostituti procuratori Camillo Falvo e Diego Capece Minutolo. Gli imputati, ritenuti affiliati al clan di Camaro, devono rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, estorsioni, furto e danneggiamento. Secondo l’accusa, il sodalizio era solito taglieggiare commercianti, cantieri edili e alcune ditte. Inoltre, sfruttando le intimidazioni, i membri costringevano i titolari delle imprese a versare soldi o assumere i sodali dell’organizzazione. L’attività d’indagine venne avviata dall’arresto di Vittorio Di Pietro, avvenuto il 15 febbraio del 2012 per estorsione in danno di due commercianti del villaggio Camaro, e portò alla luce un’organizzazione criminale di tipo mafioso, operante nello stesso rione, ma capace di estendere la sua illecita influenza anche alle zone limitrofe. Agivano soprattutto contro commercianti e cantieri edili attraverso la loro forza intimidatrice con quale costringevano i titolari delle imprese a versare denaro o ad assumere i sodali del clan. A capo del gruppo, secondo gli investigatori, c’era Santi Ferrante che direttamente dal carcere abruzzese di Sulmona riusciva ad impartire ordini agli uomini in Sicilia. Nel mirino del clan di Camaro, c’era anche l’impianto sportivo realizzato a San Licandro dall’ex capitano del Messina Calcio Carmine Coppola. In un’altra occasione i sodali dell’associazione, con un’azione volta a dimostrare la loro capacità di aggressione, incendiarono un escavatore all’interno di un cantiere. 

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