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Delfino colpito a
morte e spiaggiato
a Capo Peloro

Per i Greci l’uccisione di un delfino era equiparata all’assassinio di un uomo. Per i popoli delle isole lontane della Polinesia i delfini erano messaggeri degli Dei. E non dovevano essere toccati. Che il delitto sia avvenuto nel mitico regno delle “fere” di Stefano D’Arrigo, a pochi passi dal parco Horcynus Orca, è un fatto ancor più sconvolgente. È stato trovato nel pomeriggio, sulla spiaggia di Capo Peloro. Con il segno evidente di un colpo di arpione e tracce di sangue sulla sabbia. Non c’è stato nulla da fare. Si era pensato all’ennesimo episodio di misteriosa morte naturale, una sorta di epidemia che sta dimezzando le colonie di “Stenelle” nel Mediterraneo. Dall’inizio dell’anno, tra Toscana, Lazio, Campania, Calabria e Sicilia, sono stati segnalati più di cinquanta casi (due anche a Milazzo) di delfini spiaggiatisi sulle coste del Tirreno. Fenomeno preoccupante, come lo ha definito il ministro dell’Ambiente del governo Monti Corrado Clini, forse dovuto a un’epidemia provocata da infezione batterica. Ma nessuno ha escluso che le cause possano anche essere collegate all’eccessivo riscaldamento dei mari, alla fioritura di alghe anomale, a particolari sostanze inquinanti, a sversamenti di petrolio, se non addirittura a effetti di esercitazioni militari o di delicate ricerche geosismiche. Il delfino di Capo Peloro, però, è stato ucciso. Su questo non sembrano esserci dubbi.  Scambiato per un pesce spada? O assassinato volontariamente? Chissà. Siamo andati a rileggere storie di delfini diventati celebrità. Come Pelorus (guarda caso, si chiamava come la terra del Peloro) Jack, il “grampo” che per ben 24 anni, dal 1888 al 1912, scortò i traghetti che transitavano dal French Pass, in Nuova Zelanda. Era un’attrazione turistica unica. Finì arpionato da una baleniera norvegese. E come si legge nei testi di storia della biologia marina, oltre ai Greci, anche i Romani amavano la straordinaria socievolezza dei «mammiferi dell’acqua» e da «almeno duemila anni si raccontano storie di amicizia tra uomo e delfino». Ma vi sono, purtroppo, anche storie di crimini assurdi, di malvagità, di devastazione ambientale, di pura e semplice idiozia umana. Lo chiameremo “Pelorus Jack II”, il povero delfino spiaggiato sul litorale di Torre Faro. Immaginiamo i suoi salti in mezzo allo Stretto, la sua allegria contagiosa, il suo saluto alle feluche e ai traghetti, il suo apparire e scomparire come di colui che custodisce i segreti dell’azzurro e vorrebbe rendere partecipi gli esseri che non vivono nel regno di Nettuno. Non vogliamo, invece, pensare ai suoi ultimi tremendi attimi, colpito a morte, costretto a cercare un’improbabile salvezza sulla spiaggia sconosciuta. È una storia che abbiamo voluto mettere in prima pagina di cronaca, nel giorno di Pasqua, perché ci riporta al legame essenziale della gente del Peloro con il suo mare, lì da dove vengono preziosi tesori e crimini orrendi, ricchezze infinite e altrettanto infinite occasioni perdute. Onore a “Pelorus Jack II”.

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