Quando nell’aula della corte d’appello, ieri mattina, il giovane boss Gaetano Barbera ha detto di voler fare dichiarazioni spontanee, e poco dopo ha confessato l’omicidio che lo vede imputato, quello di Stefano Marchese, è stato tutto chiaro. Ha così “ufficializzato” l’intenzione di collaborare con la giustizia che ha già intrapreso da un paio di mesi, nel corso dei quali ha cominciato a raccontare tutto quello che sa sulle organizzazioni criminali messinesi e della provincia, nel corso di lunghi “faccia a faccia” con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia e degli investigatori. Ed è un pentimento veramente clamoroso quello di Barbera, fino all’altro ieri inserito a pieno titolo nei vertici criminali peloritani, in contatto con “rappresentanti” delle altre province, gestore di traffici di stupefacenti e del racket delle estorsioni. Ma tutto questo Barbera lo ha voluto lasciare alla spalle, ieri era assistito dall’avvocato Domenico Pugliese, un legale preparato e di grande esperienza che in passato ha assistito numerosi collaboratori di giustizia. In primo grado, nel giugno del 2012, Barbera fu condannato all’ergastolo così come aveva richiesto l’accusa, ovvero il sostituto della Dda Vito Di Giorgio, uno dei magistrati che in queste ultime settimane ha ascoltato i suoi “racconti” in una località protetta. Ieri Barbera ha confessato in aula di aver ucciso Stefano Marchese chiamando in causa per lo “sta bene” il boss Marcello D’Arri - go, e ha raccontato anche della motivazione: un segnale chiaro ed inequivocabile ai fratelli Minardi, che di Marchese erano amici. Tutti elementi d’accusa peraltro già emersi a conclusione delle indagini e consolidati nel corso del dibattimento di primo grado. Stefano Marchese fu giustiziato a 27 anni sul viale Annunziata il 18 febbraio del 2005, prima con quattro colpi di pistola al corpo, sparati alle spalle mentre cercava di mettersi in salvo, e poi con altri su una tempia e al centro della fronte. Ed è già il secondo, di ergastolo, a carico di Barbera. Il pm Vito Di Giorgio, che all’epoca coordinò anche le indagini, nel corso del processo di primo grado aveva tracciato un quadro chiaro e netto di quanto l’accusa aveva collezionato nel corso delle indagini della Squadra Mobile e nell'ascoltare alcuni collaboratori di giustizia. Aveva per esempio riportato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Salvatore Centorrino e Nunzio Bruschetta, elementi-chiave, propalazioni considerate dalla Procura “sovrapponibili” e “coincidenti” per quanto riguarda sia la causale sia l’individuazione del Barbera quale autore materiale del fatto di sangue. Sia Centorrino sia Bruschetta - aveva proseguito il pm Di Giorgio -, sono “fonte diretta” in quanto hanno ricevuto le confidenze dallo stesso Barbera, durante la detenzione: Bruschetta per esempio, ha riferito con dovizia di particolari le modalità esecutive, di come Barbera inseguì Marchese sparandogli alle spalle, e poi dopo che la vittima stramazzò fece ancora fuoco dopo essersi sollevato la visiera del casco, dicendo a Marchese «guarda, sono io che ti sto sparando». Il padre di Marchese, Tommaso, s'è costituto parte civile in questo procedimento ed è rappresentato dall’avvocato Pancrazio Calabrese. In primo grado fu decisa per la parte civile una “provvisionale”, cioé il risarcimento immediato, di 15.000 euro, e poi venne demandato ad un nuovo processo in sede civile il risarcimento globale. In appello il quadro è completamente cambiato, con la confessione dell’imputato.