Marcello Mento
Chissà come sarebbe stata Messina se il coinvolgimento del grande Le Corbusier nella ricostruzione – seguita al terribile terremoto del 1908 – non si fosse limitato a un semplice approccio, ma invece fosse sfociato in un vero e proprio progetto esecutivo? Difficile dirlo, probabilmente tutto si sarebbe risolto nella realizzazione di un quartiere, così come era accaduto con i villaggi prefabbricati inviati da quei Paesi che parteciparono alla gara di solidarietà nei confronti della città martoriata, quale quello svizzero. O forse in qualcosa di più importante. Chissà. Fatto sta, però, che l'approccio rimase tale e che di quella occasione rimane la semplice riproduzione eliografia acquerellata ora negli archivi della Fondazione Le Corbusier, che ha sede a Parigi.A interpellare nel 1915 Le Corbusier fu il deputato radicale ed allora direttore generale dei Lavori pubblici, Meuccio Ruini, uomo di grande energia e impegnato in prima persona nella ricostruzione delle città dello Stretto distrutte dal terremoto. Ruini aveva sentito parlare della Maison Dom-Ino, cioè di quel modulo abitativo che Le Corbusier aveva elaborato l'anno precedente su sollecitazione del governo francese per cercare di risolvere al meglio il problema della ricostruzione nei paesi devastati dalla guerra.A Ruini sembrò una buona soluzione per una zona da edificare con sistemi antisismici e chiese al giovane architetto di poter sfruttare in chiave industriale l'idea. Ma chi era Le Corbusier? Charles-Edouard Jeanneret, svizzero di nascita, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Le Corbusier, nel 1915 ha soltanto 28 anni, ma il suo nome è già noto nel mondo dell'architettura per alcune idee e progetti che riscossero da subito un successo incredibile. Come, appunto, il progetto della case Dom-Ino, elaborato nel 1914. E che ne faranno a breve uno dei più grandi protagonisti sulla scena mondiale.«Il nome "Dom-Ino" – spiega Francesco Tentori nella biografia di Le Corbusier – deriva dall'omonimo gioco, alla cui tesserina rettangolare assomiglia la singola struttura prefabbricata a sei pilastri e due piani (corrispondente a un alloggio), la quale si può giustapporre in modo assolutamente libero, ma preferenzialmente ortogonale (proprio come le tessere del gioco), alle altre cellule: in modo da formare filari, doppi filari, slarghi, piazze».Quali erano le qualità proprie delle case Dom-Ino che facevano al caso di Messina? Per cominciare la sua semplicità, che, scrive Massimo Lo Curzio, prevede una ossatura elementare in cemento armato costituita da due solai, sei pilastri e dalla scala, che posso essere rivestiti come meglio si crede dall'architetto o secondo il piacere del cliente. Ed è proprio questa semplicità e questa possibilità combinatoria, nonché il fatto che ben poteva inserirsi nella griglia ortogonale del piano Borzì, che fanno della Maison Dom-Ino una delle icone fondative dell'architettura contemporanea.La proposta di Le Corbusier, come ricordavamo precedentemente, non fu accolta, ma egli stesso, nel primo volume delle "Opere complete", scrive: «Ce fut le prétexte à de premières méditations sur la venue imminente d'une architecture internationale». Anche se quella proposta non fu mai operativa, osserva Giuseppe Barone, non è di poco conto sottolineare che sia stato lo stesso Le Corbusier a richiamarla come il primo passo verso il superamento dell'architettura regionalista e l'accoglimento su scala internazionale del suo paradigma spaziale di "città nuova".Marcello Sajia attribuisce il fallimento della trattativa a «complesse dinamiche politiche», facilmente decifrabili se si considera che, secondo lo stesso Sajia, era stata la massoneria messinese, con Ludovico Fulci, a sollecitare Ruini a prendere contatti con Le Corbusier.A giudizio di Barone accade che «il felice connubio tra burocrazia e politici riformatori, grande industria e urbanisti, ebbe la durata di una breve stagione, spezzato come fu dalle resistenze conservatrici di un'imprenditoria d'assalto e periferica che, fortemente intrecciandosi con le leve del potere politico locale, impedì nella città del Faro la realizzazione di moderni standards abitativi e di razionali parametri urbanistici. Dietro il versante "alto" del dibattito teorico e della progettualità architettonica – conclude Barone – si consumava un profilo "basso" di speculazioni economiche e di rivalità tra i notabili locali che avrebbero a lungo caratterizzato il "sacco edilizio" di Messina».A sua volta Massimo Lo Curzio scrive che «il razionalismo e le altre avanguardie europee saranno, almeno nella prima fase della ricostruzione, ben lontane da questa città che usa, per ricostruire la sua immagine, apparati formali ben lontani dai temi di ricerca del Movimento Moderno»A sinistra Charles Edouard Jeanneret, alias Le Corbusier. Sopra l'ossatura standard "Dom-Ino" realizzata dal grande architetto. In alto l'eliografia acquerellata realizzata da Le Corbusier dopo essere stato contattato da Meuccio Ruini, che mostra una delle tante strade rettilinee del piano Borzì che scende verso lo Stretto dominato dal profilo dell'Aspromonte, attorniata da case a un piano tutte bianche.
di Marcello Mento
Chissà come sarebbe stata Messina se il coinvolgimento del grande Le Corbusier nella ricostruzione – seguita al terribile terremoto del 1908 – non si fosse limitato a un semplice approccio, ma invece fosse sfociato in un vero e proprio progetto esecutivo? Difficile dirlo, probabilmente tutto si sarebbe risolto nella realizzazione di un quartiere, così come era accaduto con i villaggi prefabbricati inviati da quei Paesi che parteciparono alla gara di solidarietà nei confronti della città martoriata, quale quello svizzero. O forse in qualcosa di più importante. Chissà. Fatto sta, però, che l'approccio rimase tale e che di quella occasione rimane la semplice riproduzione eliografia acquerellata ora negli archivi della Fondazione Le Corbusier, che ha sede a Parigi.
A interpellare nel 1915 Le Corbusier fu il deputato radicale ed allora direttore generale dei Lavori pubblici, Meuccio Ruini, uomo di grande energia e impegnato in prima persona nella ricostruzione delle città dello Stretto distrutte dal terremoto. Ruini aveva sentito parlare della Maison Dom-Ino, cioè di quel modulo abitativo che Le Corbusier aveva elaborato l'anno precedente su sollecitazione del governo francese per cercare di risolvere al meglio il problema della ricostruzione nei paesi devastati dalla guerra.A Ruini sembrò una buona soluzione per una zona da edificare con sistemi antisismici e chiese al giovane architetto di poter sfruttare in chiave industriale l'idea. Ma chi era Le Corbusier? Charles-Edouard Jeanneret, svizzero di nascita, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Le Corbusier, nel 1915 ha soltanto 28 anni, ma il suo nome è già noto nel mondo dell'architettura per alcune idee e progetti che riscossero da subito un successo incredibile.
Come, appunto, il progetto della case Dom-Ino, elaborato nel 1914. E che ne faranno a breve uno dei più grandi protagonisti sulla scena mondiale.«Il nome "Dom-Ino" – spiega Francesco Tentori nella biografia di Le Corbusier – deriva dall'omonimo gioco, alla cui tesserina rettangolare assomiglia la singola struttura prefabbricata a sei pilastri e due piani (corrispondente a un alloggio), la quale si può giustapporre in modo assolutamente libero, ma preferenzialmente ortogonale (proprio come le tessere del gioco), alle altre cellule: in modo da formare filari, doppi filari, slarghi, piazze».
Quali erano le qualità proprie delle case Dom-Ino che facevano al caso di Messina? Per cominciare la sua semplicità, che, scrive Massimo Lo Curzio, prevede una ossatura elementare in cemento armato costituita da due solai, sei pilastri e dalla scala, che posso essere rivestiti come meglio si crede dall'architetto o secondo il piacere del cliente. Ed è proprio questa semplicità e questa possibilità combinatoria, nonché il fatto che ben poteva inserirsi nella griglia ortogonale del piano Borzì, che fanno della Maison Dom-Ino una delle icone fondative dell'architettura contemporanea.La proposta di Le Corbusier, come ricordavamo precedentemente, non fu accolta, ma egli stesso, nel primo volume delle "Opere complete", scrive: «Ce fut le prétexte à de premières méditations sur la venue imminente d'une architecture internationale».
Anche se quella proposta non fu mai operativa, osserva Giuseppe Barone, non è di poco conto sottolineare che sia stato lo stesso Le Corbusier a richiamarla come il primo passo verso il superamento dell'architettura regionalista e l'accoglimento su scala internazionale del suo paradigma spaziale di "città nuova".Marcello Sajia attribuisce il fallimento della trattativa a «complesse dinamiche politiche», facilmente decifrabili se si considera che, secondo lo stesso Sajia, era stata la massoneria messinese, con Ludovico Fulci, a sollecitare Ruini a prendere contatti con Le Corbusier.A giudizio di Barone accade che «il felice connubio tra burocrazia e politici riformatori, grande industria e urbanisti, ebbe la durata di una breve stagione, spezzato come fu dalle resistenze conservatrici di un'imprenditoria d'assalto e periferica che, fortemente intrecciandosi con le leve del potere politico locale, impedì nella città del Faro la realizzazione di moderni standards abitativi e di razionali parametri urbanistici.
Dietro il versante "alto" del dibattito teorico e della progettualità architettonica – conclude Barone – si consumava un profilo "basso" di speculazioni economiche e di rivalità tra i notabili locali che avrebbero a lungo caratterizzato il "sacco edilizio" di Messina».A sua volta Massimo Lo Curzio scrive che «il razionalismo e le altre avanguardie europee saranno, almeno nella prima fase della ricostruzione, ben lontane da questa città che usa, per ricostruire la sua immagine, apparati formali ben lontani dai temi di ricerca del Movimento Moderno»